Non passa lo straniero: il declino della Serie A dopo il blocco del 1966, sarà lo stesso per la Cina?

Il calcio professionistico cinese si sta chiudendo sempre di più ai giocatori stranieri e all’approdo di grandi campioni dall’estero, a causa della luxury tax e della possibilità di poter tesserare uno straniero in meno rispetto alle scorse stagioni. Come ci insegna la storia recente, nei casi di Russia e Turchia, che hanno limitato il numero di stranieri in campo, entrambe le nazionali hanno raccolto risultati molto magri e i club non sono più competitivi in campo internazionale.

La Chinese Super League rischia di andare incontro allo stesso fenomeno (di per se la nazionale non se la passa affatto bene) e già si sono riscontrati i primi effetti deleteri, con il calo drastico nei diritti TV dato che la China Sports Media ha voluto ritrattare date le nuove deliranti regole approvate dalla Federazione.

Anche in Italia abbiamo gridato al via lo straniero dai settori giovanili e dalle prime squadre, come se la colpa per l’eliminazione dal Mondiale fosse stata la loro (che non erano in campo per ovvi motivi). Sembrava di assistere ad un servizio della serie ‘Mario’ di Maccio Capatonda, dove la colpa per il morto ammazzato del giorno in HD ricadeva un po a caso sugli zingari. In realtà anche la nostra storia ci dice altro: l’Italia, dopo il mondiale del 1966 nel quale siamo stati eliminati dalla Nord Corea, ha abolito totalmente gli stranieri con effetti del tutto deleteri sul nostro calcio.

Negli anni ’60 l’Italia stava attraversando una crescita economica fra le più rapide e sorprendenti di Europa tanto che il decennio che va dal 53 al 63 è meglio conosciuto come “Il Miracolo Economico Italiano”. All’inizio degli anni ’50 l’Italia era un paese nel quale l’agricoltura assorbiva il 44% degli occupati. Solo nel 1958 avvenne il sorpasso da parte dell’industria mentre nel 1960 il terziario era il settore che contava la maggior percentuale degli occupati il che permise all’Italia di strutturarsi come le società avanzate d’Europa.

Si può affermare che in quegli anni il Cuore Pulsante del calcio europeo si trovava a Milano. Se a Madrid, negli anni ’50, era il Regime il motore economico del calcio, in Italia la forma di governo aveva lasciato il posto ai media e al cinema per il Milan e all’industria petrolifera per l’Inter. Da una parte l’entertainment, dall’altra materie prime ed energia, i pilastri economici della società avanzata che hanno reso grande il derby della Madonnina.

Al tempo il presidente del Milan era Andrea Rizzoli, figlio del fondatore della Rizzoli Editore, il più grande gruppo editoriale d’Italia, coinvolto anche nel settore dell’industria cinematografica con la casa di produzione Cineriz, nel 1960 ha prodotto La Dolce Vita di Fellini. L’Inter invece dal 1955 era preseduta da Angelo Moratti, fondatore della Saras, un gruppo industriale attivo nella raffinazione del petrolio e nell’energia. Quello della Grande Inter è stato uno dei primi esempi di squadre allestite con i soldi del settore energetico, oggi è molto comune osservare questo tipo di connubio se pensiamo agli imprenditori russi come Abramhovic e Rybolev, la Gazprom, oppure il PSG e il Manchester City, di proprietà rispettivamente di un fondo emiro e qatariota. Il settore delle materie prime e dell’energia detta l‘andamento dell’economia di un paese e anche del settore calcistico.

Entrambe le squadra in quegli anni vinsero tre edizioni della Coppa Campioni ed attraevano i principali talenti del calcio mondiale: i rossoneri il brasiliano Josè Altafini (poi naturalizzato) e il Golden Boy Gianni Rivera sotto la guida di Nereo Rocco. L’Inter invece aveva ingaggiato l’allenatore argentino Helenio Herrera, fra i migliori in assoluto sulla scena internazionale, lo spagnolo Luis Suarez del Barcellona e il campione del mondo con la nazionale brasiliana Jair. Non erano solo le due squadre di Milano ad annoverare talenti di primissimo ordino, ma anche il Torino con Denis Law, il Bologna con il danese Harold Nielsen e la Juventus con Omar Sivori. Il record per il trasferimento più caro fu infranto per due volte, nel 1960 con il passaggio di Gianni Rivera dall’Alessandria al Milan e nel 1963, con il passaggio del centrocampista offensivo Jürgen Schütz dal Torino alla Roma.

Il grande miracolo economico del calcio non era però destinato a durare a lungo: dopo la disfatta del mondiale in Inghilterra la Lega Nazionale Professionisti chiuse le frontiere proibendo l’ingaggio di calciatori stranieri. La crisi non si manifestò immediatamente, tanto che il Milan vinse una seconda Coppa Campioni nel 1969 mentre Inter e Juventus furono vittime del grande Ajax in finale. La Vecchia Signora nel 1968 fece segnare un nuovo record globale per l’acquisto di un calciatore, per forza di cose italiano, Pietro Anastasi, nel 1968 per 650 milioni di lire. La Decisione della LNP si rivelò essere scellerata negli anni successivi, provocando una profonda crisi nel sistema calcistico italiano, che scivolò, nella stagione 1981-1982, al dodicesimo posto nel ranking europeo.

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In un mercato globalizzato come quello del calcio, chi decide di chiudere le frontiere e limitare le influenze straniere è destinato a un netto decremento nel lungo termine.